Logo Splash Divina Commedia
Divina Commedia
 
Registrati Dimenticata la password?
*
Divina Commedia - Inferno - Canto XXII - Introduzione Critica

Testo Integrale Riassunto Introduzione Critica Parafrasi

La guardia ai cerchi dell’alto e medio inferno è affidata a demoni, le cui figure sono state ispirate a Dante dalla letteratura antica. Questi sono "personaggi infernali dell’Eneide, quali Caronte e Minosse, o mostri come Cerbero, sia pure adattati a un gusto figurativo romanico che ha in Gerione il suo esempio più caratteristico, o dei pagani trasformati appunto in demoni secondo la tradizione cristiana medioevale" (Cattaneo). Il loro aspetto non è mai privo di una certa maestà; essi appaiono in una luce di prestigio anche nel momento in cui la loro sconfitta di fronte alla ragione (Virgilio) palesa la sostanziale debolezza che si cela dietro le loro apparenze crudeli. Dante ha veduto in essi, protagonisti in terra di leggende cantate dai poeti, i cittadini di un universo di cultura oltre che le incarnazioni del male. Tutt’altra natura hanno i custodi della quinta bolgia, di ispirazione schiettamente medievale. I loro antecedenti sono nella tradizione iconografica della scultura, pittura e miniatura dei Duecento, nelle sacre rappresentazioni, in rozze leggende come quelle che hanno fornito lo spunto ai tentativi letterari di Giacomino da Verona, Uguccione da Lodi, Bonvesin della Riva. In essi la natura umana non appare degradata, come nei guardiani dei cerchi superiori in qualcosa di ibrido e deforme, quanto piuttosto colta in uno stadio di primitività - anteriore al momento della riflessione - anarchica e spensierata. I custodi dell’alto e medio inferno sono tragici: tutto parla in essi di decadimento, dello smarrirsi di un’originaria perfezione. Sotto questo punto di vista le loro figure, benché proposte a Dante da poeti pagani, rispecchiano assai più da vicino una prospettiva teologica, una meditazione cristiana sul problema del male. I diavoli della quinta bolgia sono invece comici, comico essendo il contrasto fra la loro intelligenza, superficiale, istintiva, mobilissima, e la parte, superiore alle loro forze, che pretendono di recitare di fronte ai due stranieri capitati nel loro dominio. Le parole con le quali Virgilio manifesta la volontà divina non li paralizzano nel dolore, non ríbadiscono in loro, nel ricordo di una condanna senza appello, la coscienza della loro degradazione. Significativo, a questo riguardo, è un raffronto tra il modo di reagire, alle intimazioni del poeta latino, di Pluto e quello di Malacoda; di quest’ultimo Dante ci dice che solo l’orgoglio gli "cade" mentre - e il parallelismo ha un indubbio sapore comico - l’uncino gli "casca" ai piedi. La caduta di Pluto non è invece una caduta soltanto metaforica; essa somiglia ad un annientamento totale, non consente alcuna distinzione tra realtà interiore e realtà esteriore (espresse rispettivamente, nell’episodio di Malacoda, da orgoglio e da uncino); vano si è rivelato il suo ricorso a Satana, un accenno indiretto (vuolsi nell’alto ... ), la luce di quella parola che in lui ha smarrito la capacità di significare, ne fanno un vinto, un inerme. Malacoda si adatta invece benissimo alla situazione davvero inconsueta che gli viene prospettata (XXI, versi 83-84); per lui la volontà divina è un semplice dato di fatto; di esso bisogna tenere conto né più né meno che di altre realtà che affiorano nel vivere quotidiano; ma sul suo significato non ha senso soffermarsi. Non potendo impedire l’attuazione dei decreti dei cielo, egli pensa di trarre profitto dalla presenza dei due pellegrini nel suo territorio ed inventa la menzogna del ponte sulla sesta bolgia. Virgilio, la ragione, ingenuamente persuasa di poter risolvere nel proprio ambito tutto il reale, ignora la dimensione della malizia gratuita e paga di sé, il male non riducibile, secondo l’insegnamento degli antichi, ad una semplice distorsione dell’intelletto. Eccolo dunque accettare la compagnia dei diavoli. Un’intelligenza rozza, incapace di soste meditative, ha trionfato della sua incommensurabile saggezza. Il segnale di Barbariccia suggella umoristicamente la momentanea vittoria del primitivo sulla complessità di forme razionali e tradizioni di alta civiltà che nella figura dell’autore dell’Eneide trovano la loro trasfigurazione poetica. Se il canto XXI si conclude con il trionfo dei diavoli, questi, nel canto XXII, sono a loro volta vittime di una beffa escogitata ai loro danni da un peccatore. Una singolare forma di contrappasso, scanzonato e ridanciano (ma nella chiesa coi santi, ed in taverna co’ ghiottoni), appare alla base dell’intermezzo comico della quinta bolgia. Se infatti l’intuito dei diavoli ha ragione, forse perché non la tiene in nessun conto, dell’autorevolezza di una logica scissa dalla realtà degli istinti, esso deve a sua volta dichiararsi sconfitto di fronte alla logica, tutta travasata nel concreto, di chi, come Ciampolo, cerca di salvare la propria incolumità. La presentazione che questo dannato fa di sé, più che cinica, come è parso a taluni, è "semplicemente incosciente e prímordiale. Sembra che egli non abbia coscienza che della sua immediata, esistenza, dell’essere in quanto essere puramente fisiologico e animale. Dante segue con sguardo tra’stupito ed ammirato il manifestarsi dell’intelligenza in un carattere così diverso dal suo. L’episodio di Ciampolo è la rappresentazione di tale intelligenza, che si afferma e dà i suoi frutti nelle condizioni più svantaggiose" (Salinari). Da un punto di vista lessicale il canto è, come il precedente, ricco di idiotismi e forme proverbiali. Queste particolarità di stile non hanno soltanto la funzione di caratterizzare più da vicino i personaggi (come donno e di piano, per mezzo dei quali ci è restituito nelle sue sfumature cariche di malizia l’ambito delle preoccupazioni che tengono ancora desta e attiva la coscienza dei barattieri sardi), ma si estendono anche a quei punti nei quali Dante parla in prima persona. Il linguaggio contribuisce in tal modo alla creazione di un’atmosfera nella quale dannati e diavoli, e Dante con loro, appaiono accomunati in un sentire che riscatta - sul piano dell’arte - la propria elementarità plebea nella genuinità delle proprie manifestazioni.
*