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Divina Commedia - Paradiso - Canto XI - Introduzione Critica
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Anche l’inizio di questo canto va riferito, ma per contrasto fra vita attiva e contemplativa, all’epilogo del canto precedente, perché nel vario contrappunto dei canti del cielo del Sole, come anche in quelli del cielo di Marte e di Giove, una mobilità di attenzione esultante avvolge tutte le cadenze del discorso, e più spesso per contrapposizione che per analogia. Se il canto decimo s’era concluso con il carillon che chiama i frati a mattutino, questo incomincia con lo spettacolo delle faccende mondane che trascinano ed affaticano i mortali giuristi, medici, ecclesiastici, politici che dominano per frode o per forza, e ladri, e mercanti; faticosi appaiono anche i diletti della carne, faticoso anche l’ozio.Alla conclusione liturgica si contrappone dunque questa colorita e grottesca commedia corale, anzi corteo carnevalesco delle maschere delle varie professioni: segno inoltre, di un dilatarsi dello sguardo sul mondo terreno, osservato e integrato in modi sempre nuovi, e qui disteso come sfondo al dittico dei due patriarchi dei nuovi ordini mendicanti.Fa da intermezzo fra l’una e l’altra panoramica, fra il corteo grottesco e l’alta, assorta visione di paese che prelude all’apparizione di Francesco d’Assisi, una luminosa immagine e un mite raggio di parole e di luce: gli spiriti sapienti della prima corona, tornando al punto de] cerchio donde si erano mossi, s’affiggono come la candela al candeliere. E nel vivido lume quieto torna a parlare Tommaso d’Aquino, per chiarire due dubbi di Dante, sorti dalle sue parole: u’ ben s’impingua se non si vaneggia e a veder tanto non sorse il secondo. Né si ferma ad una puntuale esegesi dei termini adoperati: ogni dubbio, nel paradiso, è sciolto da una maggior copia di luce e d’amore. Così alla meditazione liturgica riassunta nella luce del cero segue l’intermezzo storico sulla fondazione degli ordini mendicanti: storia come investigazione meditativa e riverente dell’azione della Provvidenza nel mondo, ovviamente, storia che promana dalle mistiche nozze di Cristo morente sulla croce e della Chiesa (disposò lei col sangue benedetto) e che viene subito riassunta nelle virtù di amore e di sapienza che contrassegnano i due campioni: l’uno tutto serafico in ardore, Francesco, l’altro di cherubica luce uno splendore, Domenico. E’ quasi un preludio e una sinfonia del paesaggio umbro "nel mite solitario alto splendore", secondo l’espressione con la quale il Carducci, in un ritratto di Francesco, ha riassunto la tematica dantesca.Dopo una rapida variazione sul tema del freddo e del caldo, Dante inizia a tracciare la sacra immagine del poverello d’Assisi. Sulla costa del monte Subasio nasce il nuovo sole del mondo e il Poeta ne riassume il transito terrestre in quadri, quasi scomparti d’affresco, a cominciare dall’amore per madonna Povertà, cui si congiunge in mistiche nozze davanti al padre, al vescovo, al popolo d’Assisi. Una variazione per esempi dalla storia e dalla vita di Cristo illustra e quasi accompagna, celebrandole, queste nozze: al grande verso d’amore, poscia di dì in dì l’amò più forte segue il paradosso sulla Povertà che salì con Cristo sulla croce, dove Maria rimase giuso. All’aspetto raggiante e rapito dei due amanti tutto intorno a loro si trasfigura. Si scalzano e accorrono i primi seguaci, seguono Francesco come padre e maestro, cingono la corda dell’umiltà. Papa Innocenzo approva l’ordine della gente poverella. Di altra corona lo fregia papa Onorio. E Francesco, predicata invano in Oriente la fede di Cristo e degli apostoli e dei martiri, si riduce nelle solitudini rupestri della Verna, dove riceve le stimmate. Muore poi sulla nuda terra, raccomandando madonna Povertà ai seguaci ed eredi. Il quadro della morte si accende della coralità tradizionale della legenda letteraria e pittorica: un ultimo squillo, intorno al tema della fedeltà amorosa (e comandò che l’amassero a fede), e il transito dal grembo della Povertà, nudo sulla nuda terra, alla Porziuncola. Nella quiete della contemplazione della morte, ma rotta dal transito al cielo, tornando al suo regno, lo squarcio agiografico, forse il più bello delle letterature volgari, si chiude. L’epopea della vita e morte di Francesco è finita, e il tono del discorso muta: colloquiale e disteso, ormai, mentre ripropone il raffronto con Domenico, e costata come il suo gregge si disperda. La spiegazione del se non si vaneggia è questa: constatazione di una decadenza e di una dissipazione fatta per riproporre l’esempio della virtù primiera. Si tratta, infatti, di dedurre delle conclusioni e riportarle al tema iniziale della discussione, perché Dante, anche negli squarci dottrinali, obbedisce sempre alla concretezza: concretezza drammatica, altrove, concretezza didattica in questo e in tanti altri punti. La lezione che il Poeta qui svolge ha una sua strutturazione drammaturgica, che egli ha sottratto allo schema puramente tecnico della scuola, perché ben conosce i tre momenti della dottrina: la parola del maestro, l’attenzione e la meditazione assidua del discepolo. E termina il canto modulato e ricco come pochi, che è esempio di una nuova drammaturgia e di una nuova agiografia, cui si ricollegano innumerevoli modi dell’arte figurativa e di quella letteraria nelle quali si ricerca una più intensa corrispondenza fra la meditazione sapienziale e il modo del racconto disteso e denso.
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