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Divina Commedia - Paradiso - Canto XXI - Introduzione Critica
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Occorre individuare, nello svolgimento del canto XXI, la presenza di due piani tematici sapientemente uniti fra di loro. Il motivo della solitudine e dell’estatico raccoglimento - che dovrebbe essere proprio del cielo degli spiriti contemplanti - non trova la sua figurazione concreta nel personaggio presentato, che è, anzi, una fra le figure storiche più attive e impegnate del mondo religioso medievale, ma è affidato ad elementi in apparenza secondari: la figura assorta di Beatrice, il silenzio assoluto delle anime, la scala luminosa che si innalza vertiginosamente verso l’alto, la visione dell’abisso divino nel quale ogni terrena indagine necessariamente si perde.Se è vero che tali elementi costituiscono solo lo sfondo e lo scenario del cielo di Saturno, è altrettanto vero che senza di essi la figura del protagonista perderebbe gran parte della sua forza morale e poetica. Infatti anche qui, come nel cielo di Giove (cfr. l’introduzione critica del canto XIX), " la situazione è sentita drammaticamente: ché da un lato, nel concetto di Dante, la contemplazione e l’ascesi sono premessa e guida alla attività apostolica; dall’altro, nel concreto sviluppo della sua psicologia, costituiscono l’approdo estremo, faticosamente raggiunto, di una dura esperienza terrestre" (Sapegno), per cui nell’episodio di Pier Damiano "il misticismo è puntualmente risolto in operoso zelo di riforma e la santità ascetica è sigillo d’autorità ai fieri giudizi polemici sui tralignanti istituti monastici e sulla curia corrotta ".Un altro attento lettore di questo canto, il Getto, ha accostato l’episodio di Pier Damiano a quelli di San Francesco e di San Domenico. interpretandoli come esemplificazioni dell’eroica e combattiva volontà di perfezione di Dante, come "suggestivi emblemi del sentimento dell’ascesi proprio del Poeta". In questo episodio l’animazione lirica è da ricercarsi nella convinta affermazione di una prassi religiosa, "nel gusto dichiarato dell’aspra ascesi, dell’energia morale, dell’alacre forza interiore, della virilità gagliarda dello spirito che innalza un ideale e per esso combatte. Celebrazione dell’eroismo religioso e ascetico, che illumina di più rivelatrice evidenza la religiosità di Dante, che sa l’ebbrezza del contemplare e l’asprezza dell’agire ". San Francesco, San Domenico, San Pier Damiano non sono personaggi e temi poeticamente persuasivi per quel che immediatamente dicono, per il loro contenuto psicologico e storico: per Dante essi sono modelli di vagheggiata perfezione e la sua poesia non celebra tanto le loro figure storiche quanto "il piacere dell’anima assetata di perfezione nell’accostarsi a questi umani esemplari". Anche se il Getto tempera subito dopo il suo giudizio, affermando che è pur sempre presente un’effettiva "volontà di dire poeticamente il fascino" di queste vite di santi, la sua posizione ci sembra contenere un grosso pericolo: quello di concentrare l’attenzione del lettore solo sul valore simbolico del personaggio o dell’episodio, distogliendolo dall’individuarne il valore umano e poetico. Valori che, invece, sono stati magistralmente esaminati dal Cosmo. Secondo l’illustre critico non sono gli aspetti della vita ascetica quelli che attirano Dante, bensì la forza morale che rivela il protagonista, per cui l’accento non cade sulL’ermo, che suole esser disposto a sola latria o sui cibi di liquor d’ulivi o sui caldi e geli sopportati lievemente, ma sul fatto che egli è contento ne’ pensier contemplativi. "Ciò che Dante sentiva ed ammirava del Damiano era essenzialmente la forza morale. L’essere di lui non è nella penitenza, ma nell’animo onde la sostenne... La asprezza del luogo in cui visse è descritta con tanto compiacimento perché metta in risalto la sua virtù: " quivi egli si fè fermo al servizio di Dio ‘’ ".Proprio dall’ammirazione per questa forza morale deriva il tono tutto particolare della breve biografia di Pier Damiano, la quale, pur sviluppandosi solo per 14 versi, durante il terzo sermo pronunciato dal Santo, è fra le più vibranti e le più concluse del Paradiso; soprattutto è fra le meglio individuate, perché qualunque possa essere l’intento morale che guida il Poeta nel tracciare il profilo dei personaggi della terza cantica, mai egli perde di vista la loro realtà storica e la necessità di definire, al di là del compito morale o religioso ad essi affidato, i tratti salienti della loro psicologia, i motivi centrali della loro vita. Un breve accenno al monastero sperduto nel silenzio dei monti e celato dietro la vetta del più alto di essi, pone subito un distacco totale fra il mondo e il santo eremita: surgon sassi... e fanno un gibbo. Qui l’uomo vive solo nel pensiero e nel culto di Dio. In questo religioso isolamento il tempo è in funzione solo del servigio di Dio, scandito solo dai pensier contemplativi, davanti ai quali passano in secondo piano tutte le più rigide pratiche ascetiche. Ma alla visione di questo chiostro che preparava una "fertile" messe per i cieli, si sovrappone ben presto la visione di ciò che esso è diventato: un luogo vano sul quale la vendetta di Dio non tarderà ad abbattersi. Nella pace del monastero l’uomo ha trovato la sua strada, ma l’umiltà di colui che volle sempre essere chiamato Pietro Peccator è totale, come la sua ubbidienza. Davanti ai bisogni della Chiesa e all’invito del pontefice, Pier Damiano, ormai vecchio, abbandona il suo eremo senza indugio né incertezza. "È il momento che il monaco entra nella grande vita, e questo soprattutto il Poeta vuole mettere in luce di lui: l’uomo dalla vita contemplativa uscito all’attività delle alte prelature." (Cosmo)
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