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Divina Commedia - Inferno - Canto XXXIV - Introduzione Critica
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Dopo la tensione altissima del dramma del conte Ugolino e il "furore biblico" dell’invettiva contro Pisa, il canto precedente si chiudeva in tono minore, calando gradualmente dallo sdegno violento al disprezzo beffardo dell’invettiva contro i Genovesi. Di questo tono minore partecipa anche l’ultimo canto dell’Inferno, con il quale Dante sigilla il primo tempo della "meditazione trinitaria" intorno alla realtà spirituale dell’uomo (non essendo i tre regni altro che fasi di un solo processo di caduta e di redenzione) e, nel finale, prepara il lettore alla dolce visione della marina del purgatorio. Il canto trova la sua unità attorno alla figura mostruosa di Lucifero, che domina e soverchia ogni altra immagine e la sua comparsa, già misteriosamente preannunciata nel canto XXXIII (versi 100-105), è preparata con sapienza. La solennità del verso latino iniziale - vexilla regis prodeunt inferni - infonde quasi un senso di religioso orrore, mentre la massa bruta del mostro "viene innanzi lentamente attraverso l’atmosfera scura e lontana, con lineamenti prima indefiniti, e domina paurosamente sulla squallida distesa..." (Momigliano).
Il pellegrino, che di cerchio in cerchio aveva sperimentato, giudicato, combattuto il mondo del peccato, accosta faticosamente il simbolo del male in un orizzonte cupo e grigio, dove si dissolvono tutti i più violenti colori del mondo infernale (che erano pur sempre emblemi di vita, anche se di una vita dannata), in un silenzio dove tutte le grida di dolore o di maledizione che lo hanno accompagnato, restano imprigionate nel ghiaccio.
Lo sfondo non potrebbe essere architettato con maggiore efficacia, ma quando la figura di Lucifero si avvicina e si precisa, Dante, dopo averlo sbozzato con un tratto potente (lo ‘mperador del doloroso regno da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia), si affanna impacciato, cerca approssimative precisazioni, usa iperboli ed esclamazioni. Proprio per questo numerosi commentatori negano la poeticità del più gigantesco personaggio dell’Inferno. Secondo il Grabber "il colossale in Lucifero non raggiunge un vigore poetico adeguato" perché la sua figura "è costruita con un ritmo piuttosto faticoso e frammentario". Il Romani ritiene che "questo mostro immane, con l’inutile corpaccio morto, non vale neppur uno di quei suoi ministri, pieni di maliziosa gaiezza i quali portano la viva luce del comico sulla sudicia bolgia dei barattieri ".
Tuttavia l’apparizione di Lucifero è sconcertante e grandiosa e ci riporta all’íconografia di tanti affreschi e mosaici medievali, in cui lo sforzo di rappresentare il simbolo vivente del male libera la fantasia dell’artista da ogni freno immergendola nel mondo dell’orrido. Anche se non si può negare che Dante abbia conosciuto molte tradizioni iconografiche letterarie e figurative, nella costruzione di Lucifero, nella sua struttura che poggia su salde basi dottrinali è evidente un senso di equilibrio e di misura, il quale ha impedito ogni esasperazione grottesca che poteva sconfinare nell’ingenuità o tradursi nel virtuosismo. E’ quindi giusto riconoscere la prodigiosa originalità di questa creazione che nella fantasia del Poeta vuole essere "il bestiale contrapposto della Trinità... la sintesi morale e pittorica della perversione morale e fisica del regno del male" (Momigliano). Preparato già nel primo canto, dove le tre belve sono "una demoniaca processione di una Trinità inferna, una sostanza in tre persone, l’una dall’altra procedendo, dalla Cupidigia la Violenza, e dalla Cupidigia e dalla Violenza insieme l’invidiosa Frode, l’amor del Male" (Apollonio), l’emblema della trinità demoniaca "che capovolge nel Male le aspirazioni del Bene, e irrigidisce nell’amor di sé il richiamo dell’amor divino... opera nella prima cantica, giù giù traboccando dal triforme Cerbero al triforme Gerione al triforme Lucifero", finché quelle "aspirazioni" attraverso il centro della terra saliranno verso la Trinità divina ("s’intende molto facilmente che le tre facce di Lucifero sono in antitesi con i tre cerchi di tre colori che il Poeta poi ci dirà ‘ di aver veduti in Dio" secondo l’affermazione del Pietrobono che si riporta ai versi 115120 del canto XXXIII del Paradiso).
Dante rappresenta Satana quale un immenso ammasso di materia quasi inerte, perché questa, secondo la filosofia scolastica, essendo pura potenza, passività quasi assoluta, si avvicina di più al non essere, al nulla. "Il riassunto di tutti i mali d’inferno è là, in quella montagna di materia torpida, la fonte di tutto il pianto del mondo è là, in quel gigante che piange con sei occhi, grottescamente, la suggestione precipite delle tre Bestie si spenge in quelle tre Facce, la superbia negatrice di Farinata si addormenta gelida e tetra in quel mostro che da mezzo il petto uscia fuor della ghiaccia, la monotonia dei tormenti infernali, eterni, si ripete nel gesto monotono con cui dirompe coi denti, a guisa di maciulla, un peccatore..." (Apollonio)
Poiché Lucifero è la «Trinità inferna", di fronte a questo abisso del male la parola non riesce più ad esprimere: l’impotenza a dire del Poeta ha anche questo significato. E il silenzio di Lucifero e dei dannati della Giudecca (anche Bruto si storce e non fa motto), la mancanza di ogni dialogo, l’assoluta indifferenza segnano il distacco definitivo di Dante dal male dopo la lunga meditazione sul peccato: ... oramai è da partir che tutto avem veduto (versi 68-69).
Nel finale (versi 127-139) l’atmosfera infernale ormai si sta dissolvendo, la terra partecipa più animatamente alle vicende spirituali. Il viaggio viene consumato in silenzio, ma coll’accompagnamento discreto di quel ruscelletto che discende in basso. Anche il linguaggio del Poeta muta stile e accento, preludio alla dolcezza dell’alba sulla spiaggia dell’antipurgatorio.
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